Luciano De Vita nasce ad Ancona il 24 maggio 1929. Dopo la guerra, causa di traumi profondi mai superati, si trasferisce a Bologna, dove, nel 1950, è tra gli allievi di Giorgio Morandi al corso di Tecniche dell’incisione all’Accademia di Belle Arti.

Il maestro lo vuole come assistente nell’ultimo biennio di insegnamento (1954-56).

Agli stessi mesi risalgono le prime esperienze espositive: una mostra personale e la partecipazione con tre acqueforti alla Biennale di Venezia. In questo periodo approfondisce alcuni temi propri del naturalismo d’impronta informale.

Nel 1957 vince il Premio Morgan’s Paint di Rimini, il primo di una luna serie di prestigiosi riconoscimenti che ne accompagneranno il percorso artistico.

All’attività grafica, prevalente per lunghi periodi, associa la scultura (praticata lungo l’intero arco della sua carriera ma con minore continuità) e la pittura, attraverso la quale esplora, con lo stesso linguaggio espressionista e drammatico, amplificato dalla maggiore possibilità dimensionale e dalla materia cromatica, gli ambiti indagati con l’acquaforte: l’oscurità germinale della natura, dell’uomo e del suo inconscio.

Gli appuntamenti espositivi si moltiplicano ben presto in Italia e all’estero: Chicago, Lincoln, Cincinnati, Tokyo, Parigi, Londra, Vienna, Heidelberg, Berlino. Mostre personali a New York (1964), Roma (1966), Venezia (1966), Parma (1966, dove presenta una prima antologica di pittura). Consegue vari premi nazionali ed internazionali: alla Quadriennale di Roma (1959), alla XXX Biennale di Venezia (1960, all’Internazionale della Grafica di Lubiana (1961) alla Biennale di San Paolo del Brasile (1961), al Premio del Fiorino a Firenze (1963), alla Biennale de Gravure a Cracovia (1966).

Vita
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Nel 1961 ottiene la cattedra di Tecniche dell’incisione all’ Accademia l’Albertina di Torino; l’anno dopo vince la cattedra di incisione presso l’Accademia di Brera a Milano, dove resta fino al 1975, quando lo chiamano a Bologna per affidargli la disciplina che era stata di Morandi.

Alla Galleria Dé Foscherari di Bologna presenta nel 1967 un’opera monumentale, composta da 42 riquadri dipinti ad olio su tela e legno e poi, nel 1971, la mostra “Nel mio giardino”, titolo anche di una fortunata cartella con dodici grandi acqueforti.

L’amico e scultore Luciano Minguzzi lo introduce nel mondo del teatro. Per il Comunale di Bologna realizza scenografie e costumi per la Turandot di Puccini (1969 ed un’altra versione nel 1979), l’ Otello di Verdi (1971 ed un’altra versione, di cui cura anche la regia, nel 1980), L’angelo di fuoco di Prokofiev (1973), Le veglie di Siena di Orazio Vecchi (1974) e l’ Aida verdiana , della quale è anche regista (1981).

E’ una dimensione alla quale si appassiona, nella quale può esprimersi contemporaneamente attraverso materiali e tecniche diverse, e che lo impegna intensamente per oltre un decennio: per la Scala di Milano cura scene e costumi di Orfeo e Euridice di Gluck, Il castello del Principe Barbablù di Bartòk (1979).

La nuova Galleria d’Arte Moderna di Bologna viene inaugurata nel 1975 con una vasta antologica della sua opera, comprensiva di grafica, dipinti, sculture e di un assemblaggio di elementi figurali ricavati dai suoi primi lavori teatrali.

Dopo le esperienze teatrali, riprende con impegno la pittura; espone a L’informale in Italia a Bologna (1983), all’Intergrafik di Berlino (1984), alla XI Quadriennale di Roma (1986), alla rassegna L’arte informale dopo l’Informale (1988, Imola, Chiostro di San Domenico), a “Autoritratto non come ritratto” a Bologna (1988) Alcune sue opere sono inviate a Lima, in Perù, per la collettiva Artisti italiani oggi (1989).

Nel maggio 1992 il critico Andrea Emiliani, testimone per fraterna amicizia della parabola creativa ed esistenziale di De Vita, presenta l’intero corpus grafico e una selezione di dipinti più recenti a Palazzo Pepoli a Bologna.

L’artista si è spento dopo pochi mesi, il 14 luglio dello stesso anno.

Vita
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“Lungo il cammino di De Vita e della sua opera e quasi al margine, talora delle sue giornate, si sono disposte via via alcune pagine di amicizia critica. E’ stato difficile seguire il lavoro dell’incisore, poi del pittore, poi del formatore e infine dello scenografo; … tutte queste figure…appartengono in realtà ad una sola compatta personalità entro la quale invenzione e tecnica, immaginazione ed espressione si sono sempre strettamente identificate, fino a sovrapporsi”

(Andrea Emiliani, 1975)

 

Ricordando la scelta di Morandi che lo volle come assistente nell’ultimo biennio di insegnamento di tecniche dell’incisione, preferendolo a colleghi di temperamento e di maniera più affini, “a unirli era il sentimento intimamente condiviso e inespresso dell’arte come unica risorsa e modalità dell’essere. Che, poi, per uno si traducesse in misura, ricerca di equilibrio, assenza e sospensione, mentre, per l’altro, valesse per lo più, precisamente, il contrario, la vertigine dell’oscuro, la violenza turbinosa del gesto, il caotico sovrapporsi delle figure, non è che una ulteriore riprova della più segreta ed efficace capacità di rivelare dell’arte”

(Michela Scolaro, Ritratto dell’artista da giovane, 2011)

 

“Ora è il momento di addentrarci nelle cose. Certo, non sarà nelle circostanze, nelle opinioni, nei particolari….. che De Vita affonderà la punta d’acciaio. Troppo casuale gli è sempre sembrato e continuerà a sembrargli il rapporto fra uomo e natura, perché il primo debba temere la seconda e le sue invasioni, i suoi misteri. Se li teme, non può combatterli, mentre nel combattimento è la sublimazione dell’eroe….”

(Andrea Emiliani, Le acqueforti di Luciano De Vita, 1964)

 

“Ricordo la sua grande gentilezza, usata nei riguardi degli operatori, di noi giovani e soprattutto con lo scenografo realizzatore……allora De Vita vestiva rigorosamente in nero, parco di parole, incuteva, almeno a me, una certa soggezione, ma l’esperienza di quell’anno fu indimenticabile, si trattava, infatti, di partecipare ad un evento teatrale unico, di costruire un grande gioco magico e pieno di colore, all’interno del quale la favola di Turandot si rinnovava fuori dai convenzionali schemi rappresentativi del melodramma”

(Pietro Lenzini, Ritratto dell’artista da giovane, 2011)

 

“Il guscio scabro delle innumerevoli ostriche, il soggetto originario dell’arte di De Vita, a partire da quel primo e unico studio dal vero – l’esperienza rivelatrice in cui si pongono tutte le premesse e, istante irripetibile e sempre rimpianto, si ottengono tutte le risposte – racchiude il mistero intorno al quale si sono radunate tutte le energie , gli interrogativi e le ansie, tutta la rabbia che un tempo lo aggrediva sotto forma di mostri e quel poco di speranza sopravvissuta alla disillusione”

(Michela Scolaro, A notte fonda, 1992)

 

“Ogni cosa, ogni segno tanto sulla tela, quanto sulla lastra, aveva per De Vita un senso ed una funzione solo se inteso entro un significato largamente illustrativo e per lo più autobiografico”

(Andrea Emiliani, Peintre-Graveur, 1992)

Vita

Ricordare Luciano, per la famiglia d’origine, è un atto di profonda riconoscenza e di doveroso omaggio per quello che ha saputo donare e lasciare come artista e come uomo nel corso della sua vita intensa, affascinante e travagliata, inquieta e stimolante.

La sua avventura esistenziale ed artistica, di incisore, pittore e scenografo, non poteva non essere ricordata anche sulla rete, cercando di riportare visivamente opere, immagini, articoli, saggi, che ne ripercorrono i vari passaggi e trasformazioni vissute.

Guardando la sua vita dal punto di vista più familiare, nasce in Ancona, alla fine degli anni venti, figlio di Pietro, ufficiale dell’esercito e di Luisa, casalinga; ha tre fratelli, Michele, Franco e Renato, suo gemello.

Trascorre l’infanzia nel capoluogo marchigiano, caratterizzandosi sin da ragazzo per il carattere stravagante, creativo e fascinoso.

La vita della famiglia è sconvolta e spezzata dalla guerra mondiale; il padre, ufficiale di carriera, viene assegnato alla guarnigione nei Balcani, mentre i fratelli più grandi vengono arruolati ed inviati al fronte. Franco è catturato dalle forze inglesi in Africa del nord a fine 1942, mentre Pietro è catturato a Belgrado dalle truppe tedesche nel 1943 ed inviato in un campo di concentramento in Polonia. Negli ultimi mesi della guerra muoiono Michele e il giovanissimo gemello, lasciando un vuoto ed un trauma profondo che segnerà l’opera e le visioni di Luciano.

Nello scenario della ricostruzione e tra le tante difficoltà di ricomporre una vita familiare tragicamente segnata dalla perdita di due figli, attratto dal mondo dell’arte e della cultura si trasferisce agli inizi degli anni cinquanta a Bologna, all’Accademia di Belle Arti, dove riesce, con le sue qualità e doti artistiche, a farsi apprezzare dal maestro Giorgio Morandi, che lo sceglie tra i suoi allievi al corso di Tecniche dell’incisione e poi come assistente.

Bologna diventa la sua città, dove apre un grande studio in Via Guido Reni e dove si fa conoscere tra i protagonisti della vivace vita culturale ed artistica del capoluogo emiliano. Vive con interesse anche la realtà di Milano, dove ottiene la cattedra di incisione nella prestigiosa Accademia di Brera dal 1962 al 1975, ma poi l’attrazione per Bologna è tale che ritornerà all’Accademia di Belle arti e proprio nella cattedra del suo maestro Giorgio Morandi. Per poi avviare una lunga e feconda collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna, realizzando scenografie e costumi di numerose opere con un’impronta fortemente innovativa.

Con la terra d’origine mantiene i contatti con la famiglia, stretto da un intenso legame di amore e di dolore. Piace ricordarlo per la innata presenza carismatica che si avvertiva in ogni luogo in cui entrasse, per il suo carattere a volte schivo e taciturno, assorto nei suoi pensieri e nelle sue visioni, per l’affetto che sapeva dimostrare ai suoi familiari, per la profondità d’animo.

Ci ha lasciato nel 1992, all'età di 63 anni, a causa di un male incurabile che ha interrotto troppo presto la parabola dell’artista.